Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”.
Pietro si dimostra più disponibile a superare, in generosità, la prassi rabbinica, la quale dichiara che bisogna perdonare il fratello che pecca anche fino a tre volte. Osserviamo che il numero sette, nella simbologia numerica biblica, comunica totalità, completezza. Pietro sembra dunque venire incontro alle pretese di Gesù, ma, in realtà, sette è anche l’espressione di un numero definito; Pietro manifesta ancora il bisogno di codificare i rapporti interpersonali comunitari sulla base di norme prestabilite. È come se dicesse: «Signore, ho capito che bisogna essere generosi nel perdonare, per cui, se prima il limite del perdono era fissato a tre volte, ora ti dimostro la mia buona volontà di accogliere il tuo messaggio alzando il tetto massimo della misericordia fino a sette volte». Il Vangelo ci avverte che inevitabilmente verrà il momento nel quale cercheremo di mettere dei limiti alla nostra chiamata.
«Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Questa risposta non è da interpretare in senso aritmetico, anche se saper perdonare quattrocentonovanta volte sarebbe già un programma di vita personale e comunitario in grado di evitare numerose divisioni. Ma Gesù esce decisamente dalla categoria del “limite massimo” delineata da Pietro e afferma che i rapporti personali all’interno della comunità da Lui convocata si devono fondare su un perdono totale, senza limiti e senza riserve. Per il discepolo di Gesù il perdono, la ricerca della riconciliazione è uno stile di vita sempre attuabile, quotidianamente preteso e, proprio per questo, molto impegnativo.
Tutti avremmo preferito che Gesù avesse indicato, nella sua risposta, un punto oltre il quale non si è più tenuti a perdonare, perché, come si dice: tutto ha un limite. Il Vangelo, contro ogni logica umana, ha invece il coraggio di affermare che il perdono richiesto da Gesù ai suoi discepoli è illimitato.
Resta il fatto, però, che ci sono delle situazioni in cui perdonare risulta effettivamente quasi impossibile. Qual è, allora, la motivazione profonda che ci spinge a perseverare nel lasciar plasmare la nostra esistenza dal perdono dato e ricevuto? In altre parole: come essere ogni giorno, in ogni situazione che la vita ci presenta, operatori di riconciliazione? Come essere ogni giorno persone che si impegnano a vivere la riconciliazione con Dio, con gli altri e con se stessi?
La motivazione principale in grado di spingerci a donare misericordia, amore e perdono agli altri e a noi stessi, è il perdono misericordioso, inatteso ed insperato che abbiamo ricevuto prima dal Padre per mezzo di Cristo dalla croce: “Padre, perdona loro…”.
Se facciamo troppi calcoli, vuol dire che il perdono-riconciliazione che abbiamo ricevuto non ci ha rigenerati, né l’esperienza comunitaria ci ha allargato la mente e il cuore. Essere “ministri della riconciliazione” vuol dire entrare in un modo nuovo di rapportarsi con Dio, con gli altri e con se stessi, nel quale i criteri dello stretto dovuto non sono più sufficienti.
Chiediamo con insistenza a Dio di rafforzare in noi la decisione radicale di corrispondere alla Sua chiamata per essere nel mondo ambasciatori di pace e di riconciliazione.
di Paolo Maino (dal Quaderno di formazione “Ambasciatori di riconciliazione”