Sono medico da 43 anni e non avrei mai immaginato una situazione come questa.
Durante il mio percorso di studi, negli anni ’70, le Malattie Infettive erano materia di un esame “complementare”: c’era la presunzione di aver ormai sconfitto, coi vaccini e gli antibiotici, le insidie che avevano tenuto in scacco l’umanità nei secoli. Poi è arrivato l’HIV, l’antibiotico-resistenza, la SARS, l’Ebola… la ripresa di tubercolosi, malaria, morbillo… Le malattie infettive sono tornate ad essere un nemico spietato, ma che, in qualche modo, si riusciva a controllare, se non a sconfiggere.
Poi è arrivato il nuovo Coronavirus. Una pandemia. Un virus dall’aspetto innocente, simile a quello del raffreddore, inizialmente sottovalutato dall’opinione pubblica, che è capace di scatenare una patologia complessa e, talvolta, letale. Le strutture sanitarie si sono trovate impreparate, i governi disorientati, la gente confusa e allarmata.
Pochi hanno mantenuto la lucidità e avvisato con chiarezza a cosa si stava andando incontro. Pochi, fra i quali spicca Papa Francesco, hanno saputo e sanno aiutare a dare un senso a quanto è accaduto e accade ogni giorno.
A me colpisce, anche a causa della mia professione, il riemergere della dimensione tipicamente umana del “prendersi cura”, potentemente simboleggiata nei volti segnati dalle mascherine e negli occhi stanchi e consapevoli degli operatori sanitari.
Come esseri umani, siamo continuamente divisi fra due scelte: “ciascuno per sé”, salvarsi la pelle, quello che conta è che stia bene io; oppure coinvolgersi, lasciarsi muovere a “compassione”, riconoscere la responsabilità reciproca e giocarsi in prima persona. Davanti al crollo di un mondo governato dalla logica del potere e dell’avere, di cui il virus mostra tutta l’impotenza, il “prendersi cura” è l’alternativa radicale.
La cura è responsabilità, è gratuità, è dono. Ciascuno per la sua parte. In modo visibile e pubblico, per chi è chiamato a farlo. Ma non solo. Restare in casa, rinunciare ai contatti familiari, allo sport, ai viaggi: anche questo è “prendersi cura”. Lavorare e studiare online, reggere le tensioni coi figli, ricominciare ogni giorno. Imparare ad usare gli strumenti elettronici per restare in contatto. Rispettare le indicazioni delle autorità. Restare nella solitudine e nella paura per aver contratto il virus. Scandire la giornata con la preghiera, tenendo accesa la fiammella della speranza. Tutto questo, e molto altro, è stato ed è “cura”.
Chissà che questo tempo doloroso e sconvolgente non lasci dietro di sé il “prendersi cura” di sé, degli altri, del creato, del rapporto con Dio… come riscoperta della preziosità di ogni creatura, anche la più debole e indifesa, per un futuro più umano.
Dalla Rivista Sulla Via della Pace n°59, articolo di Marialuisa Toller
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