Nel mio peregrinare da giornalista mi imbatto in conferenze su problemi di ogni tipo: i parassiti delle palme, le microplastiche, l’inquinamento globale, il ruolo della donna nella letteratura gialla e via dicendo. Nel mio peregrinare di giornalista mi imbatto in una serie infinita di sfaccettature umane con il compito di osservare, prendere nota e poi scriverci su qualche riga.
Però ci sono delle volte in cui quello che sento mi scava dentro un buco e questa volta particolare è stato il problema del turismo e delle abitazioni nel territorio dove vivo. Che ci fosse un problema me ne ero accorta da sola, ma non abbiamo mai davvero il polso della situazione finché non ci sporgiamo un po’ dalla nostra comfort zone e scopriamo che il buco che ci sembrava, tutto sommato, contenuto, è una voragine di miseria e sofferenza.
Siamo abituati a pensare alla casa come una proprietà, come qualcosa di nostro che possiamo abitare, affittare, vendere o tenere sfitto. Siamo abituati ad abitare uno spazio. E tutti quelli che rimangono senza? Ho sentito di famiglie separate con mogli e figli spediti dall’altra parte del mondo, magari in un paese in cui istruzione e sanità non sono garantiti. Bambini estirpati dal posto in cui sono cresciuti e dalle loro amicizie. Donne strappate dai diritti che abbiamo qui e riportate sotto regime.
Perché?
Perché quella casa dove abitavano, il padrone voleva affittarla ai turisti.
Ho sentito storie di giovani che non possono mettere su famiglia. Figli che smettono di studiare perché il genitore ha bisogno di aiuto per pagare l’affitto. Eccetera eccetera. E al di là del problema casa (che non mi metto a sviscerare in questa sede) mi sono resa conto che non sappiamo più abitare uno spazio sociale.
Ho una casa e penso a come guadagnarci e non a come potrebbe aiutare. Mio figlio ventenne vuole andare a vivere da solo? Sfratto una famiglia di sei persone perché lui possa avere una casa enorme e non si paghi l’affitto altrove.
Cosa sto facendo per il posto che abito? E non solo in termini del mio lavoro, quello mi è comunque indispensabile per vivere, ma in termini di volontà: quanto voglio essere partecipe delle sofferenze altrui? A cosa sono disposto a rinunciare nelle mie scelte di tutti i giorni? A quella maglietta tanto carina che metterei poco? Ad un affitto in nero perché mi posso permettere uno regolare? A un po’ di soldi in più sulla fattura di quella persona che so essere in difficoltà? A fare una preghiera in più, anche piccola piccola?
Voglio interessarmi un po’ di più al posto in cui vivo, alle persone che lo abitano, allo spazio che occupo, perché il mio abitare sia un abitare con gli altri e non solo per me stesso.
D. Squarzoni
Rubrica Check point,
dal Blog Storie, incontri, parole sulla Via della Pace