È una parola che appare sempre più spesso nella cronaca e nel convulso clima politico e civile in varie parti del mondo. È una buona notizia! – avremmo detto in coro solo qualche anno fa – solo che, nel frattempo, la parola libertà, pur rimanendo immutata nella forma, è cambiata radicalmente nella sostanza. Lo dico nella segreta speranza di sbagliarmi.
Fino al secolo scorso, il termine “libertà” è stato compreso come nobile, degno delle più alte indagini filosofiche, religiose, sociali e politiche. Ma non è stato solo un interesse accademico, anzi, ha funzionato come un motore di vita, un ideale capace di suscitare slanci generosi e conquiste di civiltà. Le idee su di essa potevano essere diverse e sprigionare conflitti, ma una cosa risultava chiara: la libertà è tale se è un bene di tutti.
Si è quindi lottato anche in modo cruento per superare dittature ed ingiustizie a vari livelli. Certamente, i risultati non sono stati sempre brillanti, costanti e coerenti; in molti settori si sono fatti passi avanti ed altri indietro, ma l’orizzonte condiviso rimaneva lo stesso: libertà come bene comune.
Ma da qualche tempo mi sembra di scorgere qualcosa di inquietante. Parliamo ancora della stessa libertà?
Mi ha fatto riflettere aver riletto in questi giorni la parabola del Vangelo che parla del cosiddetto “ricco epulone”, che tutti conosciamo. Il titolo purtroppo suona ormai semplicemente ridicolo, ma il dizionario Treccani informa che si tratta di “persona che si compiace di cibi abbondanti e raffinati” e non solo di cibi. Un mangione, un grande egoista e un arraffone, insomma.
Anche lui aveva un’idea di libertà: libertà di comprare le migliori stoffe e di farsele confezionare all’ultima moda, libertà di procacciarsi primizie da terre lontane, libertà di organizzare banchetti per centinaia di persone, vestite come si conviene al suo rango sociale. Il suo orizzonte di libertà finiva lì e neanche si accorgeva di un certo Lazzaro che rovinava il suo paesaggio con il suo indisponente bisogno di miserabile libertà di sopravvivere.
Per molti versi l’orizzonte della libertà che oggi spesso evochiamo assomiglia, temo, a quella del primo personaggio: libertà aggrappata a uno standard di vita che è solo di pochi nel mondo e facciamo sempre più fatica a condividere, libertà che si riduce alla mia intoccabile libertà di spostarmi in aereo per qualsiasi motivo o di assembrarmi con altre migliaia di persone per divertirmi, anche se poco distante si soccombe di Covid.
Non mi sembra questa una libertà che merita barricate da rivoluzione francese. Magari si gridasse ancora “Liberté, égalité, fraternité!”. Sì, perché i rivoluzionari della Bastiglia sapevano che queste tre parole vanno tenute insieme: non c’è libertà senza riconoscimento che l’altro è come me e, soprattutto, che le prime due sono finalizzate alla terza, che è diventare fratelli e sorelle, reciprocamente responsabili degli altri e scontenti finché le risorse in mano mia (economiche, culturali, sanitarie, energetiche, tecnologiche ecc.) non saranno in mano di tutti gli uomini, le donne e i bambini nel mondo.
C’è un modo più comprensibile per dire la stessa cosa. C’è una “libertà da”, necessaria per contrastare il male, una “libertà di”, che apre spazi di movimento sempre più ampi, e una “libertà per”, che permette di seguire Gesù, il Maestro, dando la vita per gli altri.
Dalla Rivista Sulla Via della Pace n° 64, articolo di Tiziano Civettini
Sociologo e teologo
Rubrica Editoriale