Sofferenza sacra

Volevo scrivere qualcosa sul pensare positivo. Lo volevo davvero. Però poi siamo in zona rossa. Siamo in didattica a distanza. Siamo chiusi prigionieri in casa nostra. Siamo distanti. Siamo soli. Siamo in una situazione economica in picchiata verso uno schianto colossale sul fondo del burrone. Siamo pieni di dubbi.

Perfino la speranza, quella famosa che dovrebbe essere «l’ultima a morire», ci sta sfuggendo dalle mani. È una brutta situazione in cui in aumento ci sono solo indici negativi (morti, suicidi, disoccupazione, depressione ecc). Sembra di essere finiti in una spirale di morte e dolore senza via d’uscita. Nessuno si sente libero. Nessuno sta bene. C’è solo un generale aggrapparsi alla condizione meno peggiore in cui almeno è diventato un’aspirazione: almeno non ho perso il lavoro, almeno prendo la disoccupazione, almeno non ho qualcuno in ospedale, almeno posso fare la D.A.D… Almeno. Mi hanno sempre detto che nella vita bisogna puntare in alto. Adesso il massimo che si può fare è puntare al-meno.

Questo è vivere? Forse no. O forse è semplicemente sbagliata la domanda. Forse la domanda giusta è: come possiamo vivere adesso? La vita non è quella cosa che ti capita quando sei nelle condizioni migliori, la vita è adesso. E adesso si porta dietro un notevole carico di sofferenza, di incertezza e di domande a cui dobbiamo trovare una risposta.

Mi hanno sempre detto che la chiave per trasformare la vita è “Pensare bene”. Ma posso farlo? Posso davvero andare da una persona che da un anno non lavora a dirgli: «Abbi fiducia e pensa positivo»? Posso davvero andare da un ragazzo che da un anno sta rinunciando ai suoi amici a dirgli che c’è qualcosa di buono in questa rinuncia a vivere? Posso davvero accostarmi a qualcuno che sta soffrendo per una morte e dirgli di guardare il lato positivo di questa situazione così oggettivamente disperata? Io non me la sento. Non me la sento di chiedere a chi soffre così tanto di pensare bene.

Allora mi sono fermata un momento e ho pensato che forse l’unica reazione possibile è quella che passa per la sofferenza. Abbiamo così paura di soffrire che non ci fermiamo quasi mai a contemplare la sacralità della sofferenza. Soffrire ci riporta alla nostra condizione esistenziale di creature. Leopardi forse non c’è andato tanto distante quando scriveva che vivere e soffrire sono intimamente collegati. Si è solo perso un pezzo della storia: si è perso Dio.

Soffrire ci spoglia del nostro delirio di onnipotenza, ci lascia inermi ed indifesi nella condizione di umanità più vera. Siamo impastati di limiti e incertezze e soffrire ci ricorda davvero di che pasta siamo fatti. Soffrire ci riporta al nostro disperato bisogno di amore, a quella condizione di miseria che ci permette di lasciarci trasformare dalla misericordia. La sofferenza è sacra perché riguarda Dio. Soffrendo ci scopriamo piccoli e bisognosi. Soffrendo alziamo gli occhi al cielo e troviamo Dio. Senza sofferenza non c’è la nascita. Senza sofferenza non c’è crescita. Senza sofferenza non c’è risurrezione.

Comincio a credere che l’unica reazione alla situazione sia quella di lasciarci guardare nella nostra sofferenza. Chiusa in casa non sto bene. In Didattica a distanza non sto bene. Senza la mia libertà e senza le persone che amo, non sto bene.

Non posso risolvere la pandemia e allora prendo questa sofferenza e lascio che Dio la trasformi perché io non sono capace. Ti prometto, Signore, che farò del mio meglio per trasformare questi giorni, ti prometto che farò del mio meglio per non naufragare in questa situazione. Ma non posso salvarmi da sola, posso solo offrirti tutta questa miseria e aggrapparmi alla preghiera di Papa Francesco: «Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi».

 

di Daphne Squarzoni
Studentessa in Studi storici e filologico-letterari

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